ABITARE IL “SI” DI MARIA

ABITARE IL “SI” DI MARIA

MARZO 2017

ABITARE IL “SI” DI MARIA

L’armonia nel conflitto

LO SPAZIO DEL “SI” DI MARIA

Nel nostro mondo di oggi, caratterizzato dalla più alta tecnologia, da sforzi mai compiuti per la gestione costruttiva dei conflitti e per il dialogo tra popoli, ma anche da egoismi individuali mascherati da bene comune, da sforzi enormi per favorire e/o bloccare la fuga o migrazione di popoli, 67 Stati sono coinvolti in guerre umanamente senza soluzione; sono attivi 746 gruppi terroristici – separatisti – anarchici – o milizie e guerriglieri. Siamo sull’orlo, e forse è già cominciata, quella che sarà chiamata la “terza guerra mondiale”.

In un tempo in cui essere stranieri, diversi, o mettersi in cammino verso la libertà, o guardare al futuro con speranza, accogliere lo straniero, abitare la terra che Dio ha dato all’uomo, vivere il vangelo, amare come Gesù ci ha insegnato o chiamare Dio con un nome diverso, diventa reato punibile fino alla pena di morte, in quest’umanità, esiste da sempre, ancora e per sempre, uno spazio di pace, di armonia. Uno spazio da abitare senza sentirsi stranieri e rifiutati; uno spazio di speranza e di accoglienza dove è possibile entrare, restare, uscire, essere solo o con altri, soffrire e gioire; uno spazio positivo, lo spazio della luce, dell’armonia.

Uno spazio dove il conflitto, inevitabile nelle relazioni umane, è attraversato come momento di vita per crescere, per creare e riscoprire la ricchezza delle differenze, per mantenere in vita le relazioni anche nei momenti di tensione e di crisi.

E’ lo spazio del “si” di Maria.

E’ lo spazio dove lei, la fanciulla di Nazareth, attraverso un “eccomi” che ha raccolto tutte le attese dell’umanità, ha messo in gioco la sua vita, senza mai ritornare sui propri passi. Fino a scomparire nell’unanimità dei fratelli e nell’assiduità della preghiera, nella “camera alta” dove si era consumato il grande dono d’amore di Dio all’umanità.

“ … al loro ritorno salirono nella “camera alta” … tutti, unanimi, erano assidui alla preghiera, con qualche donna tra le quali Maria la madre di Gesù e i fratelli di lui” (Atti 1,14).

MARIA, L’ARMONIA NEL CONFLITTO

I brani del vangelo dove si parla di Maria, non sono numerosi. Lei, che dall’inizio alla fine resta “la madre di Gesù”, vi gioca ruoli diversi e a volte contrastanti:

  • A Nazareth è serva e piena di grazia (cf Lc 1,26-38).

Il saluto dell’angelo e l’invito alla gioia perché l’Altissimo l’ha riempita del suo favore: “ti saluto piena di grazia”, turbano Maria che, con il piccolo resto di Israele invoca e attende il compimento della promessa di Dio, ma forse non pensa di esserne la protagonista. La scelta di Dio la obbliga a considerare un punto di vista diverso dal suo, ad ampliare il proprio campo di comprensione della realtà. Essere la madre del Figlio di Dio, è un’istanza che non aveva messo in conto, che modifica i suoi sogni di giovane ragazza israelita prospettandole una responsabilità che per il momento non capisce.

Ma “niente è impossibile a Dio” le dice l’angelo, e Maria si proclama “la serva del Signore”.

  • A Betlemme è sottomessa e protagonista (Lc 2,1-7. 15-18. 2,19. 51; Mt 2,11; 13-21).

Nei vangeli dell’infanzia di Gesù, Maria si sottomette alle abitudini della vita sociale. Il suo ruolo di madre la coinvolge in modo premuroso e attento, ma Dio manifesta a Giuseppe come e quando, cosa e dove … il ruolo di Maria sembra essere passivo. “Prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto … e mettiti in cammino verso Israele”. E Giuseppe coinvolge la madre del bambino nell’obbedienza a questi appelli notturni. Maria sembra essere “presa” in funzione del bambino stesso.

Ma ci sono due sottolineature che mettono in risalto il protagonismo di Maria. Luca dice: “Quanto a Maria, custodiva tutti questi avvenimenti nel suo cuore … cercandone il senso”. E’ il momento della contemplazione, della capacità di “stare” nella situazione per cercare di capirne il senso, e leggerla dal punto di vita di Dio, per conformarsi alla sua volontà.

 

      • Sulle strade di Galilea segue il figlio e, pur non incontrandolo personalmente, fonda la sua vita sulla sua parola (Mt 12,46-50; Mc 3;31-35; Lc 8,19-21).

        La famiglia di Gesù, sua madre e i suoi fratelli, è “fuori”, in contrapposizione alla folla dei discepoli che è “attorno a Gesù”. E’ un’indicazione di spazio di grande portata simbolica, perché permette di descrivere le attitudini possibili di fronte a Gesù: si può far parte o no del cerchio dei suoi discepoli. Quelli che sono attorno a Gesù per ascoltare la sua parola sono istituiti da lui come sua vera famiglia che compie la volontà di Dio.

        La situazione “dentro” e “fuori” non dipende né da criteri economici né da capacità intellettuali ma dalla familiarità e dal cammino con il Maestro. Quelli che sono “dentro” sono i discepoli attorno a Gesù. Chi è “fuori” è chi non ha voluto entrare, chi si marginalizza. L’insegnamento di Gesù si situa in un contesto di grande libertà: è nella misura che si accetta di aprirsi al mistero del Regno che il mistero diventa comprensibile, perché il Regno non è una verità da possedere ma una relazione da vivere.

        Potremmo domandarci da che parte stava Maria. Dando vita alla Parola, da sempre Maria ha costruito la propria identità sul Figlio entrando di diritto nella famiglia di “coloro che compiono la volontà del Padre”.

        • A Cana di Galilea vive con altre donne la gioia della festa, ma è ardita nel provocare il miracolo (Gv 2, 1-12).

        Maria si accorge che manca il vino e capisce che la gioia e l’amore rischiano di essere turbati. Il suo sguardo di donna, abituato alla contemplazione e il suo cuore pieno di cose viste, meditate e conservate, le permettono di vedere il conflitto nascosto nei piccoli segni di imbarazzo per la mancanza del vino alla festa di nozze.

        Entra in questo momento conflittuale e lo attraversa credendo nella sua soluzione positiva.

        Non hanno più vino” è la parola della mediazione con la quale si rivolge al figlio prima di chiedere ai servi di obbedire al suo ordine: “Fate quello che vi dirà”.

        ABITARE IL CONFLITTO PER VIVERE IL “SI” DI MARIA

        Abitare il ”SI” di Maria può allora significare vivere il conflitto come una costante nella storia umana, un aspetto necessario e vitale delle nostre relazioni, una condizione di normalità dove i desideri, i valori, le motivazioni, le idee di ciascuno sono valorizzati per la crescita e la gioia di tutti. Quello che conta è non evitare il conflitto ma imparare ad accoglierlo, gestirlo e attraversarlo nella dinamica della nonviolenza.

        Il conflitto infatti non va confuso con la violenza. Le situazioni di conflitto possono essere creative, suscettibili di produrre novità, nuovi apprendimenti, altre modalità di gestione delle situazioni della vita. La violenza nasce proprio dall’incapacità di stare nelle situazioni di tensione e di negoziare tra posizioni differenti.

        Spesso nella nostra cultura il conflitto è considerato principalmente per i suoi lati distruttivi: il presupposto è che il conflitto abbia come unica via di sbocco o di evoluzione, la violenza.

        Da questo pensiero conseguono due atteggiamenti:

        • si fa di tutto per evitare il conflitto,

        • si fa di tutto per uscirne vincitori.

        Pensare invece il conflitto come un modo naturale attraverso il quale le relazioni umane possono migliorarsi, apre orizzonti insospettati di lavoro e di ricerca. Questo implica vedere il conflitto con occhi nuovi: una crisi, una situazione difficile da cui – tramite un cambiamento di equilibri, dinamiche e prospettive – imparare qualcosa di nuovo, qualcosa di utile per la nostra vita.

        Il conflitto si trasforma allora da occasione di guerra e rivalsa, in un’occasione di crescita in cui entrambi i contendenti escono vincitori. Non si tratta più della visione “vinco io – perdi tu”, ma di quella “si vince solo se vincono tutti”. L’altro non è più il nemico, quello da combattere, che ha necessariamente torto perché la pensa diversamente da me, ma diventa semplicemente uno che ha un pensiero diverso dal mio, grazie al quale posso arricchire la mia esperienza e la mia percezione del mondo (cf C. Burzio).

        MADRE GAETANA: LA FORZA DI ABITARE IL CONFLITTO PER AMORE

        Un giorno le sorelle riunite intorno a madre Gaetana, le posero una domanda:

        Raccontaci madre, del momento in cui sei entrata al Ricovero, come hai potuto affrontare e superare quei primi momenti, vivere la pace e l’abbandono, rimetterti in gioco e restare, malgrado tutto, in quella situazione difficile che tanto ti pesava.

        La madre rispose:

        Mi separavo per la terza volta dalla mia famiglia … il distacco mi riusciva pesante, perché non compensava per nulla il mio dolore, anzi lo accresceva, data la ripugnanza che ne sentivo.

        Una sola cosa mi sorreggeva in mezzo a tanto turbamento: L’obbedienza, la viva speranza di fare la volontà di Dio. Questa sola, mediante la divina grazia, poté aiutarmi a superare tutto.

        Quale fosse la mia interna confusione in quel momento, non lo saprei nemmeno dire: ero come sbadata. Ma il Signore mi donò tanta forza che, giunta al Ricovero, vi entrai tutta tranquilla e con una tale allegrezza da far credere a tutti che ero giunta al compimento delle mie brame.

        L’accoglienza, però, che mi venne fatta sarebbe stata adattissima ad abbattermi, se Dio non mi avesse sorretta con la sua grazia. Mi presentai alla direttrice la quale neppure si mosse dal posto dov’era e mi salutò freddamente senza dirmi la minima parola di incoraggiamento.

        Andai poi, tutta sola, a salutare le ricoverate. Dissi loro che mi sarei adoperata per giovarle in tutto, ma esse mi salutarono appena e continuarono a fare ciò che stavano facevano, senza quasi badare a me: indizio chiaro di come erano state prevenute a mio riguardo. Dissimulai tutto e mi misi a seguire la direttrice e ad occuparmi come meglio potei. Ma il mio cuore era assai oppresso.

        Finalmente il giorno tramontò. La direttrice, secondo il solito, era già andata a casa sua.

        Rimasta sola, entrai nella mia cameretta; chiusa bene la porta, potei finalmente prendere tra le mani il mio Crocifisso e, stringendolo forte al petto, lasciare libero sfogo al pianto e procurare qualche sollievo al mio spirito oppresso.

        Dio solo sa che cosa ho sperimentato in quei primi tempi di vita al Ricovero! I giorni li passavo cercando di occuparmi quel tanto che potevo, come potevo e sempre con estrema giovialità; ma le sere erano tutte per me. Alle sei o al massimo alle sette avevo già cenato ed ero chiusa nella mia stanza, dove dovevo aspettare le dieci prima di coricarmi. Avevo così circa tre ore di perfetta solitudine nella quale mi assaliva ogni sorta di idee affliggenti.

        Si affacciava alla mia mente il pensiero della vita religiosa alla quale per tanti anni avevo vivamente aspirato e la vedevo nell’aspetto più lusinghiero, ma sapevo che non era più per me. Questo rinnovava il mio dolore e non sapevo trattenere le lacrime. In quelle ore di quiete, mi pareva di vedere le numerose comunità religiose e, in ciascuna di esse, i singoli membri riuniti in devoti esercizi di pietà o in sante, liete ricreazioni. Io invece mi trovavo là, tutta sola, senz’altro conforto che il mio pianto al quale lasciavo libero sfogo.

        Ma non ero però priva del mio Crocifisso dinanzi al quale mi prostravo ed a viva voce esternavo le mie pene, le mie agitazioni. Giungevo perfino a fargli le mie amorose lagnanze, chiedendogli perché mai mi avesse dato inclinazioni e desideri tanto opposti allo stato a cui mi aveva destinata. Poi, come pentita di tanta mia arditezza, gli chiedevo perdono, lo abbracciavo e baciavo e, bagnandolo con le mie lacrime, mi offrivo tutta, gli rinnovavo il sacrificio di ogni mia inclinazione e lo scongiuravo di sorreggermi con la sua santa grazia.

        Fra queste e altre simili alternative passavo il tempo; giunta l’ora del riposo, mi coricavo sopra il mio lettuccio e tranquilla prendevo sonno.

        L’anima mia magnifica il Signore
        e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,

        perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
        D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

        Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
        e Santo è il suo nome:

        di generazione in generazione la sua misericordia
        si stende su quelli che lo temono.

        Ha spiegato la potenza del suo braccio,
        ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;

        ha rovesciato i potenti dai troni,
        ha innalzato gli umili;

        ha ricolmato di beni gli affamati,
        ha rimandato i ricchi a mani vuote.

        Ha soccorso Israele, suo servo,
        ricordandosi della sua misericordia,

        come aveva promesso ai nostri padri,
        ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre.

     

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