La Galilea, luogo della mescolanza

La Galilea, luogo della mescolanza

12 Giugno 2018 Off Di Suore Divina Volontà

Giugno 2018

INTRODUZIONE

L’itinerario spirituale che la Congregazione ci ha permesso di realizzare quest’anno ci ha dato modo di capire ed approfondire il tema della Galilea da diverse angolature. Attraverso quest’ultimo ritiro vorremmo arrivare a riscoprire l’importanza, la necessità, la bellezza della mescolanza tra genti di diverse culture, fedi, lingue che abitano le nostre Galilee e ritrovare in questa dimensione una nuova umanità.

Affacciarsi sul prossimo, lasciarsi toccare e toccarlo, mescolare le rispettive esistenze non sono delle buone azioni per guadagnarsi il Paradiso. Sono occasioni in cui cogliere l’appuntamento con il Risorto.

La “Galilea delle genti” (Mt 4,15), terra di confine, è il luogo in cui i discepoli incontreranno il Risorto. Sebbene abitata, in gran parte, da israeliti e con una chiara identità giudaica, la Galilea è un territorio travagliato come tutti quelli che appartengono a una frontiera.

E’ il luogo di contatto tra stranieri, di contaminazione tra culture, di scontro di mentalità, di mescolanza di lingue, di scambi commerciali, di esperienza della varietà. E’, soprattutto, l’ambito di incontro con il Risorto e il punto di partenza designato per la missione di evangelizzazione che gli apostoli dovranno compiere.

Gli ambienti di vita che abitiamo sono delle vere terre di confine. Anche quelli che ci sono più usuali e consoni. Casa nostra, l’ufficio, il laboratorio del nonno artigiano, il bar del caffè mattutino, il solito parrucchiere, la chiesa dove si ha l’abitudine di entrare, la palestra delle tre volte alla settimana.

Tutti territori in cui si gioca il confronto-scontro con qualcuno che è diverso da noi, per quanto possa avere un volto familiare o lo sia anche a tutti gli effetti. In essi avviene una misteriosa mescolanza. Ci intrecciamo gli uni con gli altri, ci contaminiamo, ci innestiamo reciprocamente. Diventiamo gli uni storia degli altri.

A volte ci si difende. Si resiste. Capita perfino di essere tentati di rifiutare del tutto il contatto, sostenendo presuntuosamente di non averne bisogno, o accusandolo di essere un pericoloso impoverimento. Sapere che il Risorto è presente nelle terre di confine e abita gli spazi di frontiera ci fa guardare l’entrare in contatto con l’altro in una prospettiva nuova e luminosa, confidente e carica di fiducia.

Nel contaminarci gli uni con gli altri c’è un seme di vita e una promessa di crescita costante.

Il Vangelo, seppur inizialmente annunciato all’Israele, fin dal principio ha una portata universale e una spinta all’intrecciarsi dei popoli.

Alla luce di tutto questo, mettersi davanti al racconto di Gen 11, vorrà essere per noi un invito, ancora più pressante, a lasciarsi toccare, affascinare e cambiare dall’incontro con il diverso che è in noi e fuori di noi, per arrivare ad essere una sola cosa, ma nel diverso che è Altro da noi per la sua infinita misericordia e passione per ogni uomo e donna che abita questa terra. Dio Padre, Figlio e Spirito.

Genesi 11,1-9:

1 Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. 2 Emigrando dall’Oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3 Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco!» Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4 Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra». 5 Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. 6 Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera; e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro possibile. 7 Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendiamo più l’uno la lingua dell’altro!» 8 Il Signore li disperse di là su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di costruir e la città. 9 Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là li disperse su tutta la terra.

COMMENTO

Dopo il diluvio, appena prima della chiamata di Abramo, ci troviamo di fronte il racconto della torre di Babele, un racconto molto antico, satirico, direi. Un racconto che critica l’imperialismo mesopotamico perché condanna l’uniformità ed esalta la diversità e dice che la diversità è voluta da Dio, è sacra, appartiene al patrimonio dell’umanità e non si può cancellare.

Nella Bibbia come nella natura, nell’arte come nel nostro cammino quotidiano non è difficile accorgersi di come la diversità sia l’alimento della vita. Tutto della vita intorno a noi ci parla della diversità, della varietà. Non c’è vita senza diversità, senza contrasto.

Ovunque ci si giri la vita ha bisogno di diversità.

Fu così anche quando Dio per creare la vita separò le acque di sopra da quelle di sotto, la terra dal mare… Fino a che tutto era Uno non c’era posto per la vita, non c’era posto per l’uomo.

A noi uomini e donne Dio ha affidato il compito di portare avanti l’opera della creazione, ma invece di salvaguardare la diversità abbiamo la tendenza di riportare tutto a uno.

Ci fu un momento in cui “Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole”, gli uomini fermarono il cammino e costruirono una Torre, simbolo di forza e di potenza.

Una prigione e un’immobilità da cui Dio ci liberò con il dono della diversità delle lingue.

Babele è considerata l’anticreazione, perché Dio crea separando, dividendo, distinguendo, facendo le cose sempre più diverse. Quando noi facciamo le cose uguali non diventiamo pari in dignità perché dipende da quanti mattoni si portano su.

v. 1. Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole

Gli uomini hanno un’unica lingua ed un’unica parola. La globalizzazione. Tutti parlano e pensano allo stesso modo. Sembra una bella cosa, ma è un disastro.

L’espressione la stessa lingua (propria dei testi assiri babilonesi), significa: “armonia di intenti, di sentimenti, di governo e di religione”. Quest’espressione appare spesso in racconti che celebrano le vittorie di un re contro popoli ribelli.

Le nazioni che rifiutano di sottomettersi, secondo il linguaggio del tempo, “non hanno una sola lingua”, vale a dire “non andavano d’accordo con il re”. Quest’ultimo, tuttavia, trionfa contro l’opposizione, sconfigge i suoi nemici e li obbliga ad “avere la stessa lingua”, vale a dire a “tenere un solo discorso”, che era certamente quello imposto dal re di Assur. In parole povere, il re di Assur afferma che: “C’è armonia quando tutti sono d’accordo con me”.

L’espressione “una sola lingua” significa, quindi, essere d’accordo con il potere centrale.

 v. 3 Il mattone servì loro da pietra. Essi adoperarono mattoni anziché pietre.

Fare mattoni e costruire piramidi era il mestiere che facevano gli ebrei nel periodo di sottomissione all’Egitto. Il mattone servì loro da pietra. La differenza è assoluta: il mattone si fa in serie, sono tutti uguali, le pietre sono diverse tra loro e soprattutto, perché le pietre grandi ci stiano, c’è bisogno delle pietre piccole.

Il peccato della nostra tradizione occidentale è questo: per costruire meglio bisogna essere tutti uguali … come i mattoni.

Gli uomini parlano la stessa lingua, ma non hanno modo di parlarsi perché troppo preoccupati di salire. Usano le stesse parole, ma non hanno modo di scambiarsele perché il lavoro stesso glielo impedisce. Il mattone diventa, così, la negazione d’incontrarsi.

Dio, vedendo questo, gridò e la torre crollò.

4 Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra». 

Gli uomini hanno anche costruito una sola città con una cittadella, che è simbolo dell’impero, per darsi un nome, immortalare la loro fama. Hanno voluto, cioè, creare un impero universale che voleva cancellare la diversità delle lingue, delle culture e della gente.

Questo era il loro intento e perciò Dio l’ha impedito.

5 Il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. 

Qui abbiamo un esempio dell’ironia biblica, che troviamo in parecchi brani della Bibbia: hanno costruito una torre molto alta, però, per vedere questa torre, Dio è dovuto scendere. Non hanno raggiunto Dio o il cielo. Erano così bassi che Dio ha dovuto scendere per trovare questa torre sulla terra.

Si dice due volte che Dio è sceso per trovare la torre. E poi ha moltiplicato, diciamo, i «discorsi» e ha disperso la gente e così la gente non è rimasta a vivere soltanto nella pianura di Sinar, dove c’era una popolazione molto numerosa, c’era una sovrappopolazione.

La creazione delle lingue sarebbe sentita come un avvenimento negativo, una punizione inferta da Dio contro la superbia umana. In realtà, nella potenza divina o nei diversi eventi straordinari, le varie culture hanno cercato di dare una spiegazione ad un qualcosa che per il loro tempo, ma anche per noi oggi, era stranissimo ed estremamente affascinante: l’esistenza di così tante lingue nel mondo.

Genesi 10, un testo meno conosciuto che parla delle popolazioni e delle nazioni del mondo ci mostra che quello che nel capitolo 11 diventa un castigo, è un processo naturale. E’ un dato di fatto che, dopo il diluvio, le nazioni siano andate a popolare ciascuna un’altra regione e ogni nazione, secondo la propria lingua, si sia stabilita in una parte dell’universo. Qui non c’è castigo, non c’è intervento di Dio. Ciascuno è andato per conto suo a popolare e a stabilirsi in una regione della terra e parlava la propria lingua. Fenomeno che caratterizza anche il nostro tempo.

ATTUALIZZAZIONE

Cosa significa per noi Chiesa, popolo di Dio, ripercorrere la sapienza delle Scritture in un contesto come il nostro, sempre più intollerante e restio all’integrazione e complementarietà dello straniero, che in modi diversi raggiunge le nostre Galilee?

Forse bisogna ritornare ad essere Chiesa eccentrica per natura e meticcia per vocazione, realtà in cui oggi la cosa più importante è la fraternità che mette al primo posto l’altro. L’altro che scomoda. L’altro che rispetta e favorisce lo spazio per l’identità dell’altro e questo anche a livello di fede.

Come dice Erri De Luca: occorre programmare sistematicamente il sentimento della fraternità. Non quello della tolleranza che è insufficiente. La tolleranza è qualcosa che qualcuno si deve sforzare di suscitare dentro di sé. No, la fraternità, questo è l’argomento all’ordine del giorno.

Allora sì è possibile superare la paura, una paura irrazionale, per ogni contaminazione, con chi ci porta esperienze che vanno fuori da una presunta normalità. Se non arricchiamo il nostro mondo con esperienze come queste, noi rischiamo di pensare che il mondo sia finito, che non ci sia più futuro, cantava Fabrizio De Andre, appassionato cantautore di minoranze etniche.

Ci sono mille e più ragioni umane e religiose per accogliere chiunque bussi alla nostra porta.

Quando si sposta una persona non si muove solo una cultura, quando i popoli emigrano non si spostano solo i loro modi di vivere, cambia anche Dio. E il Dio più bello è un Dio itinerante, un Dio che cammina (A. Potente).

Accogliere, allora. Perché accogliere vuol dire ascoltare la vita, qualunque linguaggio essa parli. Scopriamo chi siamo solo grazie al confronto con chi è diverso da noi, perché lì sperimentiamo la nostra identità, la liberiamo, la ritroviamo rafforzata da una consapevolezza nuova. Nessuno nega la fatica. Le differenze culturali e sociali sono spesso rilevanti, le incomprensioni inevitabili. Però quello che conta è ritrovare la spinta, è riprendere la direzione verso il sogno. Il sogno che il mondo diventi una casa per tutti. Abitata da una meravigliosa, straripante varietà.

E noi, figlie di Gaetana, donna capace di andare sempre oltre, siamo chiamate ad una continua vigilanza su noi stesse e ad una incondizionata accoglienza degli altri, che non vanno ridotti alle nostre attese, ma onorati nelle loro diversità e persino in ciò che delle loro scelte ci sembra incomprensibile.

GAETANA, donna del sempre oltre

Nella sua vita, Gaetana ha camminato su strade mai sognate e nemmeno pensate, su strade che l’hanno portata ad aprire nuovi orizzonti, contagiando gioia, quella gioia che nasce dall’amore di Dio, la gioia che lascia nel cuore ogni gesto, ogni atteggiamento di misericordia. Ed oggi ci insegna ad andare per le strade seguendo la “pazzia” del nostro Dio che ci chiama a incontrarlo nell’affamato, nell’assetato, nel nudo, nel malato, nell’amico che è finito male, nel detenuto, nel profugo e nel migrante, nel vicino che è solo.

Entrando nel Ricovero, vi trovai quindi disordini e abusi quasi di ogni genere, per cui rimasi spaventata e capii subito che mi erano assolutamente necessarie grazie particolari dal Si­gnore per resistere a rimanere in un Istituto così opposto ad ogni mia brama. Inservienti di cucina erano un buon uomo e sua moglie, persone che amavano il Pio Luogo e che attendevano ai propri doveri, ma che, essendo entrati nel Ricovero fin dall’apertura e non avendo mai avuto qualcuno che presiedesse loro, erano come padroni. C’era anche un cappellano interno, uomo attempato. ma che attendeva appena al proprio ministero, per cui non poteva affatto giovarmi né per l’andamento delle cose dell’Istituto né per mio conforto(A.F It. 167; Port. 170; Sp.246; Fr.134).

, stabilita che mi fui al Ricovero, posi ogni mio impegno per cattivarmi gli animi sia della direttrice che dei ricoverati. Quanto ai superiori, non avevo allora nulla a che fare con loro, anzi li vedevo assai di rado e come per caso. Ero intimamente persuasa che la via più sicura per poter essere utile all’Istituto era quella di farmi amare: mi pareva che, essendo amata, più facilmente sarebbero state accettate bene tutte quelle cose che avessi, creduto necessario dire, fare o pro­porre a vantaggio e per il buon andamento dell’Istituto stesso … Quello che in modo particolare presi di mira fu l’assistenza agli ammalati. Li visitavo spesso, prestavo loro tutti i servizi di cui abbisognavano, accontentandoli quanto più mi era possibile. Se poi si aggravavano ed erano in pericolo di vita, raddoppiavo verso di loro le mie cure, li volevo assistiti bene di giorno e di notte e provvisti di ogni cosa necessaria; e stavo al loro letto finché avevano chiuso gli occhi al grande sonno della morte. Siccome nell’Istituto non c’era stato fino allora nessuno che si fosse preso davvero tali brighe, la cosa cominciò ad essere as­sai notata. In breve i ricoverati, e specialmente le donne, benedissero l’ora in cui ero entrata, perché tutti speravano di poter avere da me buona assistenza in fin di vita, e presto ognuno mi amò (A.F It. 170; Port. 173-174; Sp.143-146; Fr.136-137).

Ancora oggi la sua testimonianza di vita ci sprona ad andare per le strade del nostro Dio che ci invita ad essere attori politici, persone che pensano, animatori sociali. Che ci stimola a pensare un’economia più solidale di questa che stiamo vivendo.

In tutti gli ambiti in cui ci troviamo, l’amore di Dio ci invita a portare la Buona Notizia, facendo della propria vita un dono a Lui e agli altri. E questo significa essere coraggiosi, questo significa essere liberi!

PER RIFLETTERE

Sogno un mondo che prima di me ha messo te

dove c’è pace e unità.

Questo è il mondo in cui vivrei.

Sogno un mondo che aiuti chi non ce la fa

senza il sud e il nord

Qui i bianchi e i neri stanno insieme

Senza più apartheid

Lo sogno così il mondo che vorrei.

Lo cambio così

Ma stai anche tu con noi

Non è il tuo, mio, ma nostro.

Dai prova a immaginarlo

Il nostro mondo sarà magico.

Sogno un mondo che ama la vita e il mare blu

Senza veleni e lo smog

Questo è il mondo in cui vivrei

Sogno un mondo che a tutti dia opportunità

Senza pregiudizi

Che apra il cuore a tutti quanti

Perché insieme si può

Lo sogno così il mondo che vorrei.

Lo cambio così

E vedo già come sarà

Con tanti come noi

Un mondo nuovo crescerà

È tutto a colori se ci credi anche tu

Possiamo domandarci:

E io sono ancora capace di sognare? Come sogno il mondo che abito e cosa faccio perché sia, sempre di più, luogo di vita piena per tutti?

(Questo ritiro è stato curato da Sr. Lucia Scerra)